sabato 27 gennaio 2007

Faraj I, l'inizio del regno.

Poco dopo la sconfitta del Benin, giunse l'aiuto dagli Ottomani: tre armate da tremila uomini ciascuna, di cui metà erano ex detenuti a cui era stato offerto l'arruolamento in una grande operazione di svuotamento delle carceri e l'altra metà Turco-mongoli catturati nella guerra contro Bashkiria, che sarebbero rimasti un lustro per pacificare la regione, secondo il patto di mutua assistenza. Il sultano sapeva già come usufruire del credito ottenuto, ma Murad IV aspettò fino al 1634.
Tornato a casa, Faraj abbisognava di un modo per consolidare il regno. Il venticinquenne innanzitutto ritornò alla monogamia, onde pararsi da lotte fratricide. In parte per lo stesso scopo, riformò la struttura amministrativa, togliendo la dipendenza di ogni nobile al re, ma raggruppando i minori sotto altri, formando un "feudalesimo statale", che erano responsabili per i propri sottoposti e che dovevano rendere conto al monarca.

Sotto consiglio del primo ministro Belan, Faraj stabilì che i tutti i nobili suoi diretti sottoposti gli giurassero fedeltà; ai principi indiani e somali chiese invece che la fedeltà venisse giurata a sé e alla propria discendenza, mentre obbligò la nobiltà africana occidentale a sottomettersi allo stile di vassallaggio più stretto. Ovviamente, poiché tutti dovevano presentarsi personalmente, più di un anno fu impiegato nell'arrivo di tutte le delegazioni (e comunque il re obbligò quelle africane a essere le ultime).
La grande delegazione, fusasi per comodità, arrivò quindi dopo che tutti gli altri nobili avevano giurato; per coerenza verso il loro precedente partito, i re che avevano sostenuto Otham e alcuni altri, come il capo dei Dogon, dichiararono sì la propria fedeltà a Faraj e discendenti, ma rifiutarono di rimettere alcuni loro poteri al re; altri, come Ashanti e i principi songhai, si adeguarono. Faraj in quell'occasione non diede a vedere di essere contrariato da questa opposizione, poiché altri affari, esteri, lo stavano impegnando e quindi accettò questo surrogato.

La guerra per la successione napoletana
Nel 1633, il duca di Linguadoca Baptiste, che era stato esentato dal giuramento, sposò Maria Agnese di Borbone, imparentandosi con i reali francesi. Pochi mesi dopo, Alfredo d'Angiò morì, ucciso dai pirati greci sul sulla sua nave di ritorno dal Peloponneso. Per somma sfortuna, anche il suo unico figlio fu ucciso nello stesso periodo in Calabria da un ragno spaventato non identificato.
A Napoli quindi rimaneva la moglie del principe, Caterina di Borbone, nipote del re César. Questi decise quindi di restringere i legami col regno italiano, facendola sposare con Thomas del ramo nativo d'Anjou, che era strettamente imparentato con entrambe le famiglie per matrimoni precedenti.
A questa notiza la nobiltà europea rimase indifferente, ma non l'italiana. Modena protestò, così come parte dei nobili romani; la prima fu tacitata dalle minacce di Venezia, che sperava in un rafforzamento francese nell'area, non fosse solo per avere una garanzia verso gli Ottomani, i secondi dal regno partenopeo, da sempre controllori dello Stato Pontificio.
In risposta, il sultano spinse Michele d'Angiò-Nafplion a farsi avanti per il trono col suo supporto, desideroso di garantirsi l'influenza sul vicino.
Nel novembre del 1633 quindi oltrepassò l'istmo di Corinto con una piccola armata e incontrandosi con le truppe raccolte da Michele. In breve tempo buona parte del Peloponneso, ma non riuscì a prendere Kyparissia e Navarino (Pilo), uniche sedi di guarnigioni napoletane degne del nome e facilmente rifornibili dal mare in caso di lungo assedio. Murad dunque mise il conte Dimitrios Gonatas a comandare le due armate che dovevano tenere bloccati i Napoletani nelle due fortezze e mandò l'invito a Faraj a rispettare l'alleanza in quanto regno più vicino.
Forzato ad accettare, Faraj dichiarò guerra a Napoli e subito dopo a Venezia, che nel frattempo s'era unita a Thomas, da poco incoronato. Stranamente, César non intervenne indirettamente a fianco dei parenti, ma poco dopo la notizia dell'invasione della Morea, alcuni forzieri lasciarono Parigi per Napoli.
La flotta turca tentò di bloccare a Otranto la napoletana, ma l'intervento tempestivo delle galee veneziane riuscì a ricacciare la flotta nemica e mantenere il ponte navale nello Ionio. Tuttavia, la squadra navale granatina mise in fuga quella napoletana a Capo Scaramia, permettendo il transito via mare di altre due armate turche. Lo sbarco a Cefalonia, guidato da Murad in persona, fallì a causa delle proibitive condizioni atmosferiche, ma il contingente di Mesu Bey riuscì a prendere possesso di Malta.
Nel contempo, senza intenzioni ostili della Francia, Faraj potè mandare parte delle truppe confinarie francesi in Liguria, per porsi al comando del podestà di Genova, in attesa di un attacco veneziano. Tra febbraio e marzo le operazioni militari in teatro parte furono sospese. In aprile, il capitano Dolgia dovette difendere di nuovo Zante dall'esercito turco. Murad con un pesante bombardamento ebbe ragione della guarnigione, che fece sterminare e da cui prese diversi cannoni navali che gli servirono nella conquista di Itaca prima e di Cefalonia, in breve successione. A maggio il podestà Doria ricevette l'ordine da Faraj di scendere l'Appennino e lanciare un'offensiva in Lombardia, dove gli agenti granatini avrebbero tentato di trovare l'appoggio della popolazione musulmana. Il re inoltre chiese a Murad di proclamare la jihad, che avrebbe reso più facili le cose, ma l'alleato non aveva intenzione di farlo, temendo un intervento non richiesto da parte di altri stati.
Doria, con 6500 soldati italiani e 3000 francesi, si addentrò nel Monferrato (territorio già piemontese), ottenendo l'alleanza di Rolando da Maggia, mercenario ticinese, figlio di Aldighiero, comandante in Italia nel 1566; dopo aver aiutato la Francia in Provenza, aveva da una decina d'anni eliminato l'ultimo esponente dei Navarra-Savoia, riappacificato il Piemonte e ottenuto un dominio tra Chamonix, Aosta, Tortona e Acqui Terme.
Con da Maggia Doria strinse un'alleanza, nonostante l'entrata di sorpresa nel suo territorio; tuttavia Rolando non era ancora in grado di dare soldati, ma solo rifornimenti. Un mese più tardi i 9500 uomini del podestà incontrarono l'armata veneziana, di poco minore a Voghera. Nonostante la cautela del Genovese, la cavalleria venezia riuscì a prendere di sorpresa la retroguardia nemica mentre le truppe si stavano ancora disponendo per la battaglia prevista il giorno successivo, creando il caos e permettendo un efficace bombardamento d'artiglieria sui quadrati. Con l'aiuto dell'ora tarda, l'esercito invasore riuscì a ritirarsi con ordine, lasciando però sul campo 800 morti in sole due ore di combattimento. Sacrificando la cavalleria toscana (1000 uomini), l'esercito riuscì a guadagnare tempo e tornare alla frontiera ligure. Prima che si potessero portare aiuti a da Maggia, Venezia aveva già posto fine al suo breve governo, incorporando il solo Piemonte nel Governatorato d'Entroterra Italiano e vendendo la zona savoiarda alla Francia.
Nel frattempo una flotta congiunta aveva battuto quella veneziana a Lagosta, permettendo così l'inizio dell'assedio di Curzola, sempre con Murad al comando.
Ma, mentre la flotta musulmana si portava a nord per la battaglia, Thomas vide l'occasione per poter trasbordare i suoi uomini con tranquillità, facendo quindi imbarcare i suoi 10000 uomini in attesa a Otranto, che sbarcarono a Navarino, liberando la città facilmente dall'assedio e in seguito l'intera penisola, aspettando la reazione ottomana (Michele morì in battaglia guidando un manipolo arrivato da Cefalonia). Murad, vista la situazione, decise di levare l'assedio e riorganizzarsi in Albania, richiedendo le forze di Arslan Pasha.
Incoraggiato dai successi italiani, il re francese tentò un colpo di mano: mentre buona parte dei confinari francesi erano in attesa in Liguria, la flotta mediterranea sbarcò in Linguadoca il Corpo Bretone, obbligando Baptiste di Linguadoca a ribellarsi contro Granada, mentre un'altra armata invadeva l'Aquitania. Preso di sorpresa, Faraj, pagando una cospicua somma, ottenne la pace con Venezia e potè mandare l'armata, ora di 8000 uomini, in Linguadoca, intanto che con la Guardia si portava a nord.
Raimondo Doria si riscattò quindi nel combattere l'armata bretone-linguadoca, sconfiggendola e catturando il duca, imprigionato per tradimento. Il 14 settembre, quando in Croazia avveniva la battaglia senza esito di S. Maria Celeste, incontro dell'esercito turco e dogale, che fermò entrambi, Doria e la cavalleria della Guardia respingevano le avanguardie francesi a Pau. Con questa sconfitta, il maresciallo Molne chiese la tregua, che fu poi ratificata da entrambi i sovrani, con un nulla di fatto.
Anche Murad, vedendo che sarebbe stata un'impresa improba ritentare l'invasione del Peloponneso dopo il rafforzamento delle postazioni napoletane in Grecia e Italia, chiese anch'egli la pace.
Con la pace di Lienz del 1635 l'assetto politico europeo rimaneva più o meno invariato, eccetto per Malta e le Isole Ioniche, che andavano nella loro totalità all'Impero Ottomano, mentre il Peloponneso rimaneva in mani napoletane. Venezia ci guadagnò circa mezza tonnellata di oro, una di argento e 10 galeoni oltre alle navi catturate, il tributo pagato frettolosamente da Faraj per la tregua. La Francia riuscì quindi a legare a sé il regno di Napoli e Sicilia, ma non la Linguadoca: Baptiste fu graziato, ma dovette ripudiare la moglie francese per un'aragonese e rinunciare ai suoi privilegi, giurando fedeltà.

sabato 6 gennaio 2007

Yusuf VII e la guerra fra Othman e Faraj

I tre anni che avrebbero portato Othman a essere sedicenne videro alcuni cambiamenti nella geografia europea.
Nello stesso anno della morte di Muhammad, il sultano mosse guerra al khan di Bashkiria, conquistando velocemente una vasta area a mezzaluna che andava da a nord di Azov ad Astrakhan.
Più importante è l'altro evento, la nascita delle Province Unite. Nel 1625 l'imperatore Lothar emanò un editto che esentava i sudditi luterani dei Paesi Bassi da alcune tasse, che andavano a gravare quindi sui calvinisti; ai nobili inoltre era tolta la rappresentanza nelle diete imperiali. Questa mossa non piacque alla nobiltà frisona e di Groningen, che sotto la guida della casa Orange iniziò la rivolta contro l'impero. Questa sollevazione preoccupò non poco le tre potenze vicine: infatti nel 1626 l'esercito di Willem I liberò l'Olanda e prese Amsterdam, l'ultima città inglese sul continente. 50.000 uomini furono dati al duca di Sassonia affinché eliminasse i rivoltosi e altri 13.000 furono mandati dalla Francia. Altri contingenti furono mandati da alcune nazioni all'esercito tedesco, tra cui 600 cavalieri guidati dal figlio di Yusuf, Faraj.
Dopo che la flotta anglo-tedesca fu sconfitta nella baia di Helgoland, l'Inghilterra si ritirò dallo scontro. Per affrontare l'armata imperiale, parte dell'esiguo esercito si ritirò a Leeuwarden, mentre il restante andò a sud per incontrare i Francesi, che furono sconfitti a Leuven; tuttavia non si riuscì a recuperare il Brabante dalle loro mani e Guglielmo dovette venire a un accordo.
La defezione del contingente mercenario russo riuscì a prolungare l'assedio di Leeuwarden, che alla fine fu interrotto perché inutile. La guerra si protrasse fino al 1632, quando i due antagonisti vennero a un accordo: le Province Unite sarebbero state indipendenti e avrebbero avuto completa autonomia tranne che per la politica estera, per cui avrebbero dovuto basarsi sull'imperatore. Tale accordo venne poi cancellato nel 1670, sostituito da un formale tributo annuale.
L'esautorazione
Nel frattempo, il giovane Othman passava gran parte a essere educato in Africa, sotto la tutela del fratellastro Umar, un ex schiavo che era stato liberato da Muhammad e adottato. Ottenne di poter far trascorrere la maggior parte del tempo dell'erede in Africa perché voleva consolidare definitivamente il favore regale a sud del Sahara, obiettivo più facile con un principe del posto (tranne che per qualche tribù particolarmente ostile ai Malinké). Inoltre non si fidava di Yusuf e ne ebbe ragione.
Il reggente era pressato dalla nobiltà arabo-berbera e catalana, che non erano disposte a sottomettersi a un re meticcio, a cui Yusuf aveva lasciato
passare troppo tempo lontano da Granada. Inoltre si mormorava di pericolosi contatti con l'Oba.
Poche settimane prima del compleanno di Othman e quindi del conseguente passaggio di poteri, una delegazione di nobili guidata dallo sceicco di Posadas si recò a corte: presentarono una dichiarazione firmata da numerosi altri nobili che chiedeva di escludere Othman dalla successione; uno dei firmatari era bin Jelloun, il capitano della Guardia.
Per "legalizzare" il gesto Yusuf istituì il Consiglio Generale, organo consultivo di cui facevano parte tutti i nobili "stipendiati e possidenti", ovverossia i nobili arabi, iberici, italiani e francesi, che erano quelli che a costo di grosse perdite di terre, ricevevano un piccolo stipendio statale integrato con i loro possedimenti per amministrare il territorio; pertanto rimasero fuori alcuni Francesi e Italiani e la maggior parte dei nativi delle colonie. Il Consiglio, formato nella prima seduta da solo il 10% degli aventi il diritto, con Yusuf emanò l'editto che negava il trono al ragazzo per "assenza e negligenza" nella Sala dei Mostri da poco costruita. Lo staff della madrasa di palazzo lo convalidò giuridicamente. Othman fu quindi richiamato da Bambuk per prendere atto del cambiamento.
Othman si stava preparando alla partenza quando gli arrivò la notizia. Alla sua resistenza, il governatore ordinò di arrestarlo, ma riuscì a fuggire col seguito e giunse a fine 1629 alla corte del Benin.
L'oba accettò di buon grado il nuovo ospite, che gli chiedeva aiuto per riguadagnare il diritto al trono. In poco tempo Umar giunse all'accordo per il fratello con il re: assieme ai Mande e ai Wolof, con cui era rimasto in rapporti dopo la fuga e a cui era stato promesso aiuto per la creazione di loro imperi, Othman avrebbe tentato la rivolta spalleggiato dal Benin in cambio di alcune città costiere. Ma per prima cosa i due fratellastri sarebbero dovuti recarsi a Granada con un corpo scelto, per assicurarsi il controllo della città appoggiandosi ai militari lealisti.

La guerra civile
A inizio del 1630 (17 Jumada al-awal) 5000 soldati del Benin entrarono in territorio granatino e gli alleati si armarono per colpire i nemici. Cacciati facilmente i presidi militari nelle loro terre, le varie forze si prepararono all'attacco alle principali città e alle coste. Quasi immediatamente anche i Mossi si unirono alla rivolta.
Il 18 Othman, Umar e un centinaio di uomini s'imbarcarono su due navi verso la Spagna. Eludendo le pattuglie di Gibilterra, il manipolo sbarcò indisturbato e a piccoli gruppi entrò la capitale.
Al momento la città era sguarnita: la minaccia a sud era molto forte e dato che la leva non avrebbe potuto rinforzare abbastanza velocemente le zone in pericolo, Yusuf aveva mandato quattro dei cinque reggimenti della Guardia a unirsi all'ex Guardia Askia e formare una prima linea di difesa.
Arrivati in città, i sostenitori di Othman si misero in contatto con ar-Raqib, il comandante della Guardia Civile, corpo urbano di vigilanza, che si adoperò per contrastare la probabile reazione della Guardia. Non fu possibile reperire il custode del palazzo.
Velocemente, il gruppo salì quindi all'Alhambra, irrompendo negli appartamenti, catturando Yusuf, Faraj e tutta la corte. Quello era il giorno in cui la maggior parte delle guardie di palazzo era in licenza. Tutto andava secondo i piani di Umar, con pure meno uomini da cui difendersi.
Preso in ostaggio, Yusuf fu obbligato a indire una seduta straordinaria del Consiglio per rivedere completamente la sua risoluzione. L'incontro fu fissato per la settimana dopo, tempo troppo breve per richiamare anche solo un reggimento di leva.
Il giorno successivo, ancora senza una reazione da parte dei lealisti, arrivò il capitano Zalat, che comandava la sezione della Guardia di palazzo, mettendosi a disposizione di Othman e facendo liberare i suoi uomini catturati. Nel pomeriggio ar-Raqib avvertì di non potersi opporre al quinto reggimento di al-Abbas, ritirando in suo supporto. I mille uomini in cremisi cinsero il palazzo, chiedendo di parlamentare ma senza esito. La mattina seguente un gruppo di loro s'inerpicò fino a raggiungere un passaggio ricavato nel muro a ridosso dell'harim, aprendo una porta secondaria. Il reggimento si riversò all'interno, confrontandosi con un quinto delle loro forze.
Qui il piano iniziò a mostrare qualche falla. Umar aveva predisposto dei passaggi obbligati che avrebbero permesso una facile difesa, ma nessuna di queste barricate era rivolta verso la nuova direzione degli attaccanti.
In procinto di essere circondate, le guardie meno convinte si arresero mentre il resto degli occupanti si ritirava dal palazzo. Tentarono di raggiungere la qasba, ma la trovarono già occupata e allora si ritirarono tra la decima e la dodicesima torre.
Mentre cercavano un passaggio, Yusuf riuscì a liberarsi e fuggire, venendo però colpito da un archibugio. Presto i soldati arrivarono e con dei barili di polvere irruppero nelle strutture. Sebbene impacciati dagli spazi angusti, gli uomini della Guardia ebbero ragione degli opppositori, senza dare quartiere. Una decina di uomini con Othman furono fatti calare dalle mura e fuggirono nel parco, ma furono ripresi e massacrati.
Dopo quegli eventi, il venticinquenne Faraj celebrò il funerale di Yusuf e mantenne la data del Consiglio: in quell'occasione, di fronte a centoventi nobili, salì al trono e dichiarò una jihad contro il Benin e i suoi alleati, chiedendo aiuto a Istanbul.

Reazione
Seguì l'esercito verso sud, sbarcando alla foce del Gambia e prendendone personalmente il comando, dopo che avevano sconfitto i Wolof e ridotti a uno stato di guerriglia.
Circa 30000 uomini dal Benin (che ne aveva mandati altri), Mossi, Mande e alcune bande di Fula avevano preso d'assedio Kumasi, città Ashanti rimasta fedele a Granada. Faraj poteva disporre di solo 7000 uomini più le milizie. Mentre si muoveva per provare a sconfiggere quella grande massa, gli fu annunciato che tutto il contingente del Benin si stava ritirando: Muhammad XVI di Bornu aveva approfittato della situazione per attaccare nuovamente da est e servivano rinforzi; il re così si potè confrontare contro un esercito di poco maggiore. Arrivò e grazie all'utilizzo dei corpi d'élite sconfisse gli avversari. Prima però di metterli in fuga, offrì di parlamentare ai re, invitandoli in città. Il colloquio portò all'amnistia per le popolazioni sconfitte e il ritiro dalla guerra.
Due mesi dopo l'esercito incontrò le poche guarnigioni del Benin, che era da poco riuscito a liberarsi del Bornu con un tributo. Vedendo che ci si aspettava un altro massacro, l'oba accettò l'offerta di Faraj di ulteriori perdite territoriali, senza modi per difenderle. Il confine fu portato al fiume Niger e l'impero venne dimezzato.